L’intervento delle Nazioni Unite nella politica internazionale del femminismo
- Marta Regattin
- 10 feb 2021
- Tempo di lettura: 6 min
“[Oggi] il sogno di emancipazione delle donne è imbrigliato nel motore dell’accumulazione capitalista” scrive Nancy Fraser, filosofa e teorica femminista statunitense, nel suo articolo "Oltre l’ambivalenza: la nuova sfida del femminismo".
Le Nazioni Unite hanno giocato un ruolo fondamentale nell’assorbire il potenziale rivoluzionario e sovversivo del movimento delle donne negli anni '70. Era necessario, per superare la crisi che il capitalismo stava affrontando, fare sì che gli obiettivi del movimento si conformassero a quelli del capitale internazionale e delle sue istituzioni. Il movimento era troppo potente e pericoloso per essere annientato o ignorato: bisognava istituzionalizzarlo.
In questo articolo vi spiego come e perché questo è avvenuto, basandomi sulle riflessioni di Nancy Fraser, Silvia Federici e Maria Mies, tre sociologhe, filosofe, accademiche e scrittrici femministe.
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Non è la prima volta: l’intervento delle Nazioni Unite nel processo di decolonizzazione
Non è la prima volta che le Nazioni Unite intervengono con questo modus operandi in questioni che mettono in crisi l’ordine internazionale: l’avevano già fatto, infatti, durante il processo di decolonizzazione negli anni '60. Quando diventò evidente che le lotte anticoloniali non potevano essere sconfitte, le Nazioni Unite si imposero come forza pacificatrice e democratizzatrice e presero la guida dei processi di decolonizzazione dichiarando il loro sostegno ai colonizzati.
Lo scopo era quello di garantire che la decolonizzazione avvenisse in modo compatibile con i bisogni e i programmi del capitalismo internazionale, ovvero secondo le esigenze dei principali membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (Stati Uniti, Francia e Regno Unito). In particolare gli Stati Uniti spingevano verso la creazione di un mercato globale finalmente libero dai vincoli che gli imperi coloniali ponevano alla circolazione mondiale di merci e capitali.
Non è strano né una novità che la stessa cosa avvenga, a partire dalla metà degli anni '70, rispetto al movimento femminista.

Istituzionalizzare il femminismo – perché?
L’intervento delle Nazioni Unite nella politica internazionale del femminismo comincia ufficialmente con la prima conferenza internazionale sulle donne di Città del Messico nel 1975, convocata dall’Assemblea Generale. Non è una coincidenza che in quel momento storico i movimenti femministi stessero acquistando una pericolosa forza sovversiva e si presentassero come fieramente autonomi e diffidenti rispetto ad ogni rappresentanza o partecipazione politica.
L’intervento era necessario al mantenimento dell’ordine sociale e politico mondiale: il capitalismo stava affrontando una grave crisi (che si concluderà con l’affermazione del neoliberismo su scala mondiale) e per ristabilire il comando sulla disciplina del lavoro era urgente distruggere le forme organizzative di resistenza allo sfruttamento, dunque annientare il potenziale sovversivo del movimento delle donne.

“È in questo contesto che le Nazioni Unite si sono proposte di trasformare il Movimento di liberazione della donna da movimento anti-sistemico in movimento che avrebbe legittimato e sostenuto l’agenda neoliberale” spiega Silvia Federici.
Per farlo bisognava modificare gli assetti istituzionali in due modi:
- introducendo un nuovo contratto sociale tra donne e Stato;
- assegnando nuovi ruoli produttivi alle donne.
La forte e ormai difficile da reprimere rivendicazione di autonomia da parte delle donne aveva compromesso la mediazione del lavoratore maschio-salariato nel rapporto tra donne, capitale e Stato.

Un aiuto dal femminismo liberale
Ciò che rese più facile l’“addomesticamento” del movimento fu la presenza all’interno del movimento stesso di forti tendenze liberali: Nancy Fraser parla di una pericolosa ambivalenza del femminismo, che era capace di dialogare sia con l’egualitarismo solidale che con l’individualismo liberale.
Le femministe liberali identificavano la liberazione delle donne con il diritto al lavoro e il raggiungimento dell’uguaglianza con gli uomini, dando per scontato, come scrive Silvia Federici, “che gli uomini si fossero già liberati”: questo significava, per le agenzie del capitalismo internazionale, che era possibile istituzionalizzare il movimento e indirizzare le sue politiche nel modo più efficace per il mantenimento del sistema di sfruttamento, ovvero permettendo alle donne di accedere in modo massiccio al mercato del lavoro.

Lo scopo del femminismo liberale è la parità giuridica e politica fra i sessi. Non vuole modificare la società capitalista, ma solo migliorarla, si batte per la libertà e l’autodeterminazione dell’individuo ed ha storicamente lottato per far sì che alla donna fossero concessi gli stessi diritti che ha l’uomo. La sua parola chiave è uguaglianza.
Istituzionalizzare il femminismo – come?
I mezzi utilizzati dalle Nazioni Unite per depoliticizzare il movimento, minarne l’autonomia e disarmare le donne che si opponevano all’espansione dei rapporti capitalistici sono numerosi, ma riassumibili in quattro grandi macro-azioni.
Le Nazioni Unite:
hanno sponsorizzato conferenze globali per concentrare le energie e gli sforzi delle femministe a livello internazionale ed indirizzare le lotte verso attività e programmi istituzionali;
hanno creato commissioni a cui sono state invitate a partecipare note femministe, sradicandole dai loro movimenti e dando credibilità ai propri programmi;
hanno creato un quadro di “femministe globali” con l’incarico di rappresentare i bisogni e i desideri delle donne di tutto il mondo e decidere quali lotte sono da definirsi femministe o meno;
hanno incentivato i governi a istituire ministeri e uffici per le donne, a sottoscrivere dichiarazioni a favore dei loro diritti.
Le Nazioni Unite hanno creato in questo modo una squadra di “femministe di stato” e un’altra di “femministe globali”, le prime presenti nei vari governi e dunque facilmente controllabili e manipolabili, le seconde incaricate di rappresentare i bisogni delle donne del mondo e ridefinire l’agenda femminista con la supervisione delle Nazioni Uniti e delle agenzie collegate ad essa.
Le conseguenze (negative)
1. L’agenda femminista proposta dalle Nazioni Unite ha di fatto permesso un maggiore sfruttamento delle donne, eliminando gli ostacoli alla loro “partecipazione all’economia”, permettendo loro l’ingresso nel mercato del lavoro senza tenere in considerazione le condizioni e le modalità di questo lavoro e senza assicurare i mezzi di riproduzione (ovvero tutto ciò che consente agli esseri umani di sopravvivere) alle famiglie.
2. Le donne in tutto il mondo sono state integrate nei cosiddetti “programmi di sviluppo” (ovvero di sviluppo capitalista) e nel sistema monetario, entrando in un mercato del lavoro sempre più deregolato e caratterizzato dal costante aumento del lavoro informale, in un contesto in cui le riforme indotte dall’aggiustamento strutturale imponevano programmi di austerità e tagli ai posti di lavoro e lentamente venivano distrutte le forme di sussistenza, considerate un ostacolo allo sviluppo e all’emancipazione femminile.

3. Questa istituzionalizzazione del femminismo ha allontanato molte donne, specie le più radicali, dal movimento. Maria Mies, rispetto all’intervento delle Nazioni Unite nelle politiche femministe, parla di un movimento che si forma “dall’alto” e si focalizza principalmente sul ruolo delle donne nello sviluppo, l’istruzione e lo status della donna. Come spiega Federici “l’intervento delle Nazioni Unite ha contribuito […] a creare un nuovo movimento femminista, integrato alla politica istituzionale, esclusivamente focalizzato sulle ineguaglianze di genere, e cieco invece delle crescenti ineguaglianze prodotte dalla ristrutturazione economica.”
4. Secondo Maria Mies queste politiche da un lato hanno allontanato molte femministe che non si sentivano più rappresentate e ascoltate dopo l’istituzionalizzazione del movimento, dall’altro hanno avuto un effetto collaterale positivo, facendo aumentare il numero di donne che ha preso coscienza della questione femminile, specie nei paesi in via di sviluppo, e dunque dando nuovo slancio a nuove forme di organizzazioni dal basso.

Che l’intervento delle Nazioni Unite nelle politiche del movimento femminista non fosse il miglioramento della condizione delle donne, lo prova il fatto nel decennio 1976-1985, dedicato dalle Nazioni Unite ai diritti delle donne, le condizioni di vita delle donne nel mondo sono drammaticamente peggiorate a causa delle politiche adottate da agenzie legate alle Nazioni Unite, come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale con i loro programmi di aggiustamento strutturale.

Il GLOBAL GENDER GAP INDEX, dall'Atlante delle donne
Le conferenze globali sulle donne di Città del Messico nel 1975, Copenaghen nel 1980, Nairobi nel 1985 e Pechino nel 1995 hanno confermato la crescente burocratizzazione del movimento e la disparità tra le promesse delle conferenze e la realtà delle donne.
Scrive Silvia Federici:
“Ciò che le Nazioni Unite hanno ottenuto con queste iniziative è stata la neutralizzazione del Movimento di liberazione della donna, che è stato integrato nel loro programma politico come vetrina per il loro progetto di democratizzazione. […] era chiaro che questi eventi erano l’occasione per eliminare le componenti più radicali del movimento femminista e ridisegnare l’agenda.”
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Fonti bibliografiche
- FRASER N., Oltre l’ambivalenza: la nuova sfida del femminismo, “Scienza & Politica”, vol. XXVIII, no. 54, anno 2016, pp. 87-102
- FEDERICI S., Il punto zero della rivoluzione, Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista, ombre corte, Verona, 2014
- Silvia Federici: Gender and Democracy in the Neoliberal Agenda: Feminist Politics, Past and Present, 6th Subversive festival, Zagabria, 21 maggio 2013
- MIES M., Patriarchy and accumulation on a world scale, Zed Books Ltd, Londra, 2014
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